Lo rivedo ancora nella sacrestia disadorna dietro alla cappella del Santissimo. Ecco lì, coi suoi grossi occhiali neri fra le mani, mentre riguarda attentamente gli ultimi provini fotografici del suo Gesù morto. Aveva un amore sviscerato per la passione di Gesù. Era il suo “modello” preferito. Ci incantava ogni volta a raccontarci la storia della Sindone, le teorie sull’età del lenzuolo. Ma raggiungeva il culmine quando si soffermava a contemplare le piaghe, la loro forma, la profondità, la frattura al naso causata dalla caduta sotto il legno della croce. L’umanità di Gesù era il punto centrale della sua catechesi. Quanto spiritualismo astratto c’è oggi in giro! Che nostalgia di quella sacrestia disordinata arredata con “pezzi” di vita e di storia. Un angolo di marmo intarsiato “trafugato”da qualche chiesa abbandonata; una tela antica da ripulire con qualche sfoglia di cipolla (metodo suggerito a Don Umberto da qualche vecchio artigiano locale); fogli sparsi di qualche discorso preparato e mai pronunciato; Un candelabro da ripulire: “Sai, ci sono degli zingari che fanno un ottimo lavoro di pulitura”.E cosi dal candelabro traeva spunto per raccontarmi la vita di quei nomadi conosciuti per caso ed i suoi dialoghi sulla fede con loro. “Ma gli zingari sono cattolici?” Chiedevo io per provocare una sua lunga e compiaciuta dissertazione sul senso della vita. “Certo!” “Tutti gli uomini sono cattolici, ma non tutti lo sanno”. Era questo il più intimo convincimento di don Umberto che trasmetteva in tutti noi una fiducia smisurata nella Chiesa ed in Gesù. “E allora, perché i musulmani non sono cristiani”. Incalzavo ancora per stuzzicare il suo spirito polemico e controvertista. “Perché è troppo complicato.” Rispondeva don Umberto, raccontando per l’ennesima volta l’episodio del guardiano d’albergo conosciuto a Gerusalemme. Era una vita che frequentava preti e suore cattolici e ne era affascinato, ma non si era mai convertito. Continuava a raccontare citando le parole del mussulmano: “La vostra religione è troppo complicata, è una religione “di dentro”. La nostra è più semplice, perché è molto esteriore”. La spiegazione dell’umile portiere di Gerusalemme era l’occasione per don Umberto di ironizzare sulla sapienza popolare e imbastire una profonda catechesi sulla essenza della nostra fede. E noi ragazzi restavamo incantati a sentirlo snocciolare racconti di vita vissuta, episodi ilari e seriosi, sempre conditi di una ammirazione per l’uomo e per Dio. E che tutti gli uomini fossero cattolici senza saperlo era provato dal fatto che dovunque andasse trovava amici ed estimatori. Non scorderò mai un episodio molto significativo a proposito. Era una sera d’estate e don Umberto si apprestava a ritirasi nella tenda “speciale” che gli avevamo preparato al campo scout, con tanto di branda e ogni genere di confort possibile. Si adattava a tutto pur di stare con noi al campeggio. E noi avremmo fatto qualunque sacrificio per averlo tra noi a celebrar messa, a predicare, a cantare. Quella sera, però, la dolce sinfonia del suo respiro profondo (meglio dire: ”russava rumorosamente”) non si avvertiva lasciando delusi noi impertinenti ed ilari uditori nascosti. Scoprimmo, poi, che don Umberto passava alcune serate a far visita ai vicini abitanti di un signorile caseggiato. Ne era nata una speciale amicizia. Si trattava di due anziani coniugi che gli avevano aperto il cuore raccontandogli l’immutabile dolore per la perdita della loro giovane figlia che mostravano in una vecchia foto vestita da ballerina classica. Per lui era come rivivere la passione di Gesù nello sconfinato dolore di quei genitori. Non so quante volte ci ha mostrato la vecchia foto della fanciulla sconosciuta vantandone la bellezza come se fosse sua figlia. Era in questo modo che, dovunque andassimo, don Umberto diventava il “cantastorie” del luogo nei cui racconti ogni gesto e persona incontrata diventava il paradigma della storia di ogni uomo. Con il racconto delle sue esperienze e dei suoi amici sempre nuovi allietava le nostre serate ai campi, i nostri incontri e spianava la strada alle nostre proverbiali richieste di aiuto, soprattutto alimentari. Ricordo che i genitori della bambina in cambio del suo interessamento ci regalavano ogni giorno un buon vino di casa che è un prezioso corroborante negli stenti dei campi scout. Ma questo era niente per quei signori che nelle parole e nelle promesse di Don Umberto quasi vedevano tornare in vita la loro bambina. E non fu solo una parentesi estiva. Tornato nel suo disordinato ma bellissimo “laboratorio della fede”, la sacrestia del duomo, incominciò a rielaborare la vecchia fotografia della fanciulla usando tutti i mezzi ultramoderni di cui amava circondarsi. Ne venne fuori un poster magnifico che immediatamente rispedì ai due simpatici amici in Abruzzo. E ancora mi domando estasiato: “come faceva a trovare il tempo e la disponibilità per queste cose?”
…IL SUO REALISMO .In verità don Umberto era un uomo d’altri tempi che viveva nell’oggi con la curiosità di un bambino alla scoperta del mondo. Era un uomo d’altri tempi, che sapeva apprezzare e godere di tutte le meraviglie della modernità, ma non ne era ostaggio o prigioniero. Le riforme del Concilio lui le aveva anticipate da tempo nel suo stile di vita e nella sua predicazione, ma non per questo inculcava il disprezzo o la stupida sufficienza per la teologia e la chiesa del passato. Qualcuno ha gridato allo scandalo quando è stato eretto a Capua il monumento a San Roberto Bellarmino, dipinto come uno spietato inquisitore ed un paladino dell’oscurantismo cattolico. Fortunatamente don Umberto ci aveva resi immuni da questi giudizi antistorici e affrettati. Egli sapeva apprezzare la fedeltà alla Chiesa di un Bellarmino e l’immensa carica rivoluzionaria di un San Francesco d’Assisi, ma su entrambi ci insegnava ad usare con prudenza e saggezza la lente livellatrice della storia ed il metro diseguale della psicologia. Ricordo una furibonda discussione tra lui ed un giovane “fanatico” di San Francesco. Questi era scandalizzato del fatto che Don Umberto provasse rispetto ed anche una certa solidarietà nei confronti del “povero” Pietro di Bernardone” che si era trovato ad affrontare in casa il dramma di quel figlio di cui Dante dice: “e venne al mondo un altro sole”. Sfido chiunque a tenere in casa “un altro sole”, senza impaurirsi e dubitare. Con una sensibilità spiccatamente mediterranea don Umberto provava a mettersi nei panni del fiero mercante di Assisi che si vedeva espropriato, d’un tratto, di tutti i sui averi catapultati dalla finestra dal giovane figlio “scapestrato”. Credo anch’io che San Francesco stesso avrà avuto sentimenti di compassione per il dramma del povero padre incapace di contenere la infinita luce di quel “sole”. Ma questo era il grande realismo di don Umberto. Egli non amava fermarsi, come molti, alla ammirazione distaccata e compiaciuta degli aneddoti della vita dei santi, talvolta sdolcinati e romantici, ma amava risalire immediatamente alla fonte da cui essi provenivano: Dio stesso. Ci sono alcuni che sanno a memoria biografie di Santi e storie sacre, ma non parlano e trasmettono nulla di Dio, autore di ogni santità. Questa sincera sete di assoluto lo portava sempre a guardare con sospetto ogni superflua acrobazia intellettuale e qualunque eccesso di pianificazione o di novità, anche in campo ecclesiale. Da qui forse la ingiusta fama di tradizionalista che lo circondava in alcuni ambienti religiosi. In particolare dopo l’importante convegno “Evangelizzazione e territorio”, voluto dal mons. Diligenza nei primi anni del suo episcopato a Capua quale segno della storica svolta conciliare che questo grande pastore si apprestava a dare alla nostra chiesa. In un infuocato intervento don Umberto sorprese tutto l’uditorio esprimendo scetticismo e dubbi sulla validità delle nuove impostazioni proposte. Tale atteggiamento fu interpretato come un nostalgico tradizionalismo opposto al vento riformatore di mons. Diligenza. Don Umberto temeva, invece, l’insorgere di una chiesa elitaria, che smarrisse il contatto con la grande massa e parlasse un linguaggio per iniziati. Era un’impostazione non ideologica, né pretestuosa o irriverente, ma semplicemente il frutto del suo vivo realismo, della sua vasta esperienza e delle sue radici popolari. Su questi temi egli rifletteva e soffriva con molta intensità non risparmiandosi autocritiche e ripensamenti. Tale spaccato di profonde e severe autoanalisi ci è offerto magistralmente nel libro di don Peppino Centore: “Don Umberto, un prete così” che è una tappa deliziosamente obbligata per chi volesse comprendere appieno la vita di don Umberto. E in verità con il passare degli anni si è visto come anche i dubbi ed i tormenti di don Umberto avevano qualche fondamento. Molti di quelli che plaudivano ciecamente alle novità solo perché novità oggi si lamentano che le grandi masse corrono dietro a maghi e santoni o a spiritualismi astratti e antistorici. Le grandi masse, invece, hanno sempre riempito le chiese di don Umberto e seguito le sue iniziative che ancor oggi sopravvivono: “i primi venerdì”, “la processione dell’Immacolata”, “i viaggi a Lourdes”… Un realismo, dunque, a volte anticonformista e viscerale, ma che non gli faceva mai perdere di vista l’essenziale in ogni occasione. Così come quando riflette sul suo sacerdozio: “Ecco che cos’è la vita di un prete, è lo scotto che l’umanità paga a Dio per il dono del soprannaturale… Io non parlo qui del sacerdote fondatore, del benefattore da prima pagina, dei vari protagonisti della presenza cristiana nel mondo, di quanti sono impegnati nella mischia a suon di tromba. Parlo dei manovali di Dio. Parlo dei più. Di quelli che sono riusciti finalmente a dimenticare se stessi e pensano a battezzare i vostri figli, ad assistere quanti si trovano nelle difficoltà dell’ultimo passo… con modestia artigiana, con una semplicità contadina, ignari del resto del mondo, nati, vissuti e ammuffiti, dopo mille giovanili promesse, sempre fra le stesse pietre e incollati a quelle quattro pagine di storia locale che gli hanno procurato fama di uomo di cultura in mezzo a quella dozzina di “uomini di cultura” del paese. Qualche giorno fa una donna mi disse:” Fatevi baciare la mano, voi siete quasi un Vescovo. E’ vero?” Povera, semplice donna! Per lei tutto il mio sacerdozio s’è fermato alla ostentata e provinciale solennità del mio portamento a un certo mio modo personale di dare ad intendere che io pensi molto altamente di me stesso. E il mistero del prete?
…IL SUO AMORE PER CAPUA.Un realismo, dunque, che lo portava a schernirsi ogni volta che qualcuno gli pronosticava un futuro da vescovo. E non lo faceva per falsa umiltà, dal momento che don Umberto era ben consapevole delle sue capacità e non amava certo il nascondimento. Il motivo era nella paura di potersi trovare ingabbiato nel ruolo e perdere la libertà di movimento. Quella libertà che lo portava a trascorrere piacevolissime serate nella farmacia del dott. Gaeta, in corso Gran Priorato di Malta, per intrattenersi sulla storia di Capua e progettare altri documentari o ricerche dopo gli splendidi e riusciti audiovisivi:“Aria di Capua” e “Viaggio lungo il Volturno” che aspettano ancora una più degna valorizzazione. Così come aspetta di essere ultimata e pubblicata un’opera a cui attendeva negli ultimi anni di cui si è persa la memoria e di cui io sono testimone. Si tratta della raccolta di tutte le epigrafi disseminate per le vie di Capua ed incastonate nelle costruzioni antiche. Ricordo che di tanto in tanto, finita la Messa, ci mettevamo in macchina e iniziavamo la “caccia alle lapidi”. Appena trovatane una, all’angolo di qualche strada, fermava la sua macchina, un’Opel Ascona, azzurro metallizzato, e, appoggiato al finestrino, incominciava a battere sulla dattilo portatile. L’amore per Capua era qualcosa di più che il naturale attaccamento alle proprie radici. Anzi era per lui il superamento delle stesse, il tentativo di abbattere le antiche “mura” e proiettarsi in una dimensione più grande, quasi infinita. E’ facile immaginare allora quanto dolore dovette procurargli la decisione romana di togliere all’ Arcidiocesi di Capua il titolo millenario di Metropolìta. Era come togliergli qualcosa di personale e di profondo che avrebbe diminuito la sua stessa dignità. Un giorno mentre entravamo in Capua dalla parte di S.Angelo in Formis, indicandomi il profilo dei campanili e delle cupole avvolti nel rossore irreale di uno splendido tramonto, mi disse con voce sommessa:” Questo è il centro del mondo”. E allora si capiva che dentro quelle pietre egli leggeva qualcosa che andava ben oltre il dato storico, qualcosa non comune e, forse, non comunicabile, qualcosa che faceva vibrare all’unisono le corde del suo cuore e quelle della sua mente. Grazie a lui anch’io porto dentro un amore per questa città che va oltre l’istintivo e comune campanilismo. Grazie a Lui io ebbi la fortuna di apprezzare il deposito di lapidi, stemmi e altro materiale abbandonato negli scantinati del palazzo arcivescovile appartenete ai resti della distrutta cattedrale. Fra esse mi faceva notare l’originalità espressiva e poetica di una inscrizione in cui il marito si rivolgeva alla moglie morta in questo modo: “Da me semi-vivo, a te semi-morta”. Io rimanevo incantato da tanta genuina passione in un uomo così importante e impegnato. Come avrebbe potuto fare una cosa del genere da vescovo? Pur nell’apparente solennità del suo portamento e del suo ruolo, aveva bisogno di essere libero e semplice. Quella libertà e semplicità che gli permetteva di fermarsi alla salumeria di don Pasqualino, fuori orario, per assaggiare (si fa per dire! Don Umberto non conosceva questa parola troppo delicata in campo gastronomico) l’ultima specialità della “boutique” alimentare, come amava definirla il noto e amabile proprietario. E ancora, la possibilità di andare a predicare a destra e sinistra senza problemi.
…LA SUA PREDICAZIONE INCESSANTE.Predicare per Don Umberto era una missione, ma anche una medicina. Una volta, infatti, ci confidò di essersi recato da Padre Pio per chiedergli un consiglio spirituale. Era preoccupato che la sua passione per la predicazione potesse trasformarsi in una vanità. Ma il Santo di Pietrelcina che sapeva scrutare nei cuori lo aveva incoraggiato ad andare avanti perché la predicazione lo avrebbe messo al riparo da tante tentazioni. E così egli non si risparmiava mai quando si trattava di andare a predicare anche molto lontano. Come quella volta che improvvisamente mi chiamò per propormi una due giorni in un paesino della Lucania, dove ricorreva la festa patronale. Un’ora per decidere e via. Naturalmente non ci pensai due volte. Io ed un altro amico scout, Girolamo, partimmo sicuri di vivere un’avventura indimenticabile. Don Umberto non era un guidatore di lungo corso, ma noi ci fidavamo ciecamente. Solamente lungo i tornanti delle montagne lucane avemmo qualche attimo di terrore perché la mole di don Umberto non gli consentiva rapide e complesse evoluzioni. “Sarebbe bello farsi una villa su queste montagne”. “Che ne pensate, ragazzi?” In questo modo cercava di farci rilassare. Ma noi eravamo ammutoliti dalla paura. Allora, all’insistente domanda senza risposta, io proruppi d’istinto: “ Don Umbè, se non state attento qua ci fanno una lapide, altro che una villa”. E giù a ridere a crepapelle, dimenticando la tensione e la paura. D’altra parte il nostro trio era famoso per la capacità di sdrammatizzare e ridere su tutto. Spesso questo era un problema nelle relazioni sociali. Infatti quando arrivammo a destinazione entrammo nella chiesa dove erano esposte in fila una lunga teoria di statue di Santi di fattura discutibile. San Giovanni Bosco sembrava Frankenstein, San Rocco col cane, un noto personaggio capuano detto “il picciaccio”, e così via. Ridevamo cercando di non farci vedere dalla gente; don Umberto era felice, ma imbarazzato. All’improvviso arrivò il parroco che non conoscevamo. Un omino esile e di bassa statura, con una strana chioma, altissima, folta ed asimmetrica. Sembrava anche lui sceso da uno di quei piedistalli di cartapesta. Girolamo ed io non potendo trattenere le risate scappammo verso l’uscita e Don Umberto fu costretto ad affrontarlo da solo facendo appello a tutta la sua diplomazia. Alla fine della serata ci aspettavamo un rimprovero per quella improvvisa e maleducata fuga davanti al prete di “cartapesta”. Ed invece lui non vedeva l’ora di rincontrarci per continuare a commentare l’episodio. Don Umberto ci ha trasmesso una carica umana ed un modo di vivere la fede straordinari. E’ un’eredità che non so esprimere se non con le sublimi parole di una sua figlia spirituale che oggi è un gigante di spiritualità : Suor Teresa delle Trappiste di Vitorchiano. “ Quello che è stato don Umberto per noi lo sappiamo: e prima ancora lo sa Dio… Don Umberto ci ha generati ad un amore personale e vitale a Gesù e questo è un dono impagabile… Sì ci ha contagiati di quella “malattia” che si chiama Gesù Cristo… Sì don Umberto vive perché il nostro è il Dio dei vivi, non è il dio dei morti”…Ora rivedo il suo volto dentro le parole di Tagore: “noi siamo nati da una grande gioia”, e resto attonita: dove sta il cielo, dove la terra? Don Umberto, grazie. Maran-atha, Signore vieni.” Suor Teresa è la sorella di don Peppino Centore e pur essendo suora di clausura è più presente che mai. Don Peppino è per me l’erede spirituale di don Umberto e rappresenta un baluardo per tanti valori e sentimenti che sembrano sempre più minacciati dal tempo e dalle mode. D’altra parte noi tutti “Siamo nati da una grande gioia”. La gioia vera di chi la trasmette e la riceve nello stesso tempo perchè essa non è frutto di sapienti alchimie, ma è un tesoro trovato e condiviso.
…I SUOI SCOUT. L’amore di don Umberto per noi giovani non era altra cosa dal suo apostolato, ne era invece l’espressione più matura. Molti sacerdoti ed educatori cercano affannosamente di stabilire relazioni amicali con i giovani spogliandosi della loro veste e accorciando le distanze. Don Umberto no. Egli non eliminava le distanze, ma ti aiutava a percorrerle insieme e ad incontrarsi. Stupenda sapientia cordis! Ricordo commosso la lettera che ci inviò durante un periodo di malattia che lo rese inattivo per molti giorni: “Cari ragazzi, perché non venite a trovarmi un poco? Forse non avete saputo niente? Oggi è la prima volta che ho lasciato, per alcune ore il letto. Per uno come me, che non sa che significhi, è stato duro: quattro giorni fra 39 e 40 di febbre. E, in genere, sempre solo, perché mia sorella era a Roma e non ho preferito allarmarla. Sabato sera comunque ha dovuto saperlo, ma stamattina è ripartita. Nei pomeriggi sono sempre a letto per le fleboclisi. Ieri vi avevo preparato le paste perché è stato il mio compleanno e pensavo che ve ne ricordavate. Se venite stasera però non troverete niente. Venite lo stesso, perché in questi giorni ho sentito molto la vostra mancanza. Don Umberto” Noi rispondemmo all’appello immediatamente e le paste non le trovammo davvero, ma in compenso trovammo una cosa ancora più dolce ed insolita: don Umberto disteso a letto con il pigiama senza la tonaca nera, fredda e solenne. La sua stanza era di un lindore e di un ordine che non rifletteva affatto il suo temperamento, ma era il pegno dovuto alla convivenza con la sorella che certamente avrebbe molto sofferto per quell’invasione di 15 – 20 scout poco ordinati. Per don Umberto, invece, fu un toccasana, molto più delle siringhe e degli antibiotici che i medici gli somministravano. Era sempre così la sua presenza tra noi: una boccata d’aria pura ed un sorso di giovinezza. Alla fine di una delle tante allegre serate al campo scout di S.Maria Del Molise, prima di concludere, confessò pubblicamente: “non mi sono mai divertito tanto in vita mia”. Avevamo messo in scena con costumi e baldacchino improvvisati una finta processione al Santo patrono del campo: “Santa Macchietta”. C’era tanto di banda musicale, di questuanti e fuochi d’artificio. La statua era impersonata da me che riuscivo ad irrigidirmi al punto da rischiare di cadere ogni tanto sul fuoco come un pezzo di legno. Don Umberto rideva a crepapelle e si mischiava alla folla di ragazzi che gridava: “u’ fuoc”, “u fuoc” per provocare una falsa caduta ed una più ilare ricomposizione della statua vivente. Il giorno dopo per compensarci di tanta bravura si portò nella vicina Agnone dove sapeva che si vendevano pregiati coltelli e altre varie stranezze. Se ne tornò con uno “strummolo” di legno artigianale ed in un’improvvisata cerimonia di premiazione me lo consegnò spiritosamente come trofeo. Ci volevamo tutti molto bene e lui godeva di questo affetto come un vero padre. L’ultima sera che ci siamo visti è stato come darsi un appuntamento per l’eternità. Erano i primi giorni di Agosto 1982 e noi ci preparavamo febbrilmente per la partenza del campo mobile in Valle D’Aosta nei locali al pian terreno del palazzo arcivescovile che allora erano una sede scout (com’era bello quando il “sacro palazzo” risuonava dei canti e delle grida dei lupetti e delle guide). Don Umberto stava vivendo in pieno il dramma della sorella malata e si intratteneva con noi per rilassarsi un po’. All’improvviso mi chiese se potevo accompagnarlo a prendere un gelato appunto perché voleva distrarsi. Fu la prima e l’ultima volta che gli dicevo di no. Non ci saremmo rivisti mai più. Ero troppo indaffarato ed in ritardo con i miei impegni. Lui sorrise: l’appuntamento era solo rimandato. E so che mi aspetta ancora. Il giorno dopo partimmo per la nostra avventura sulle Alpi col solito carico di zaini, tendine, pentole e roba varia. Nello zaino di uno scout di Capua, a volte mischiati irriverentemente a pile, calzini o altro si trova sempre un vangelo o un rosario. “Dite almeno tre Ave Maria la sera prima di coricarvi”. Questo era il viatico di Don Umberto, per noi ragazzi. Ma grazie ai nostri capi, Alfonso, Vittorio, Gigino e Claudio, il cammino del campo mobile era segnato dalla preghiera e dalla meditazione continua. Attraverso di esse don Umberto era idealmente presente in mezzo a noi. Non potevamo immaginare nemmeno lontanamente che proprio in quei giorni egli stesse vivendo il suo calvario. Eppure la sera del 15 agosto avemmo un presagio che solo dopo sapemmo decifrare. Eravamo partiti per una faticosa traversata: dai 1441 metri di La Thuile dovevamo passare per il lungo vallone di Chavannes fino al valico di 2603 metri per poi scendere al rifugio Elisabetta. La grande fatica sarebbe stata compensata da una delle più splendide vedute del monte Bianco. Nel tardo pomeriggio, forse nelle stesse ore in cui Don Umberto incominciava l’agonia, un improvviso temporale ci costrinse ad una sosta forzata prima di arrivare al rifugio. Vento e pioggia incutevano un’ insolita tristezza nella solitudine di quella lunga valle. Col cuore in gola, riscaldato solo dalle parole rassicuranti e decise di Alfonso ci ritirammo nelle tendine. “Ragazzi sveglia, Don Umberto è morto” . Un brivido ancora mi percorre la schiena quando ripenso alle parole di Gigino mentre piangendo apre la cerniera della tendina. Erano circa le sei del mattino. Ti sbagli! Sicuramente è morta la sorella che stava molto male! Tutti noi ripetevamo queste parole per darci coraggio, mentre, di corsa, sotto una pioggia battente che ci bagnava il viso insieme alle lagrime, ritornavamo a La Thuile. Lì purtroppo avemmo la certezza che non era uno sbaglio perché i capi stavano studiando il modo di tornare al più presto a Capua per i funerali. La notizia era arrivata tramite la polizia che era stata allertata da qualche nostro amico che sapeva bene quanto fosse importante avvisare i suoi scout. Tutti, infatti, credevano che saremmo ritornati, fino all’ultimo momento. Pure durante il funerale qualcuno pensava: “ecco adesso spunteranno da qualche parte; non è possibile che i rovers non siano presenti al funerale del loro padre.” E invece, no. Noi avevamo deciso di restare. Don Umberto non era morto. Egli era vivo, tra noi. E da quel giorno lo sarebbe stato per sempre, molto più di prima. Con questa certezza riprendemmo il cammino, senza indugi e, grazie a Dio, non ci siamo fermati ancora. Anzi dalla sua morte sono scaturiti frutti di vita inimmaginabili. Lo scoutismo a Capua si è esteso notevolmente con la fondazione di altri due gruppi. Il simbolo di questa rinascita è tutto racchiuso in un’opera straordinaria realizzata qualche anno dopo, nel 1987, sul monte Tifata. Parlo della “Croce degli Scout”, un imponente struttura di ferro alta 10 metri che domina la piana di Capua, da S.Angelo in Formis al mare. Ai piedi della croce una lapide in marmo ricorda il sacrificio di Don Umberto con una sua frase inconfondibile: “ Sì, Gesù Cristo è veramente risorto. Ma risorto, lo adoro; appassionato lo amo! E anche Gesù ha amato appassionatamente don Umberto. Il “modello” preferito delle sue foto e della sua vita ora cammina con lui “cianciando per le vie del cielo”